Nonostante la latitanza di questi mesi, dettata da un’oggettiva incapacità comunicativa, mi sono messa a leggere seguendo un ritmo tutto mio: ho accelerato, rallentato, saltato da un libro all’altro, ma seguendo un mio personalissimo filo logico. Sono rimasta un bel po’ in Oriente, partendo dall’Iran, una terra che mi ha sempre affascinato e che ho potuto conoscere grazie al racconto di un caro ragazzo che lavorava insieme a me. Mi ha raccontato della vita a Teheran, della Jihad e di come la vita fosse diventata un inferno al punto tale da dover scappare. Spesso non ci rendiamo conto che il bene più prezioso che abbiamo è la libertà, spesso nascere nel luogo giusto del mondo è solo fortuna e tutti dovrebbero averla. Moslem, il ragazzo iraniano che mi ha raccontato di Teheran, aveva lo sguardo di chi ha visto l’inferno e si trova miracolosamente in un altro luogo, al prezzo di dover lasciare la famiglia.
“L’illuminazione del susino selvatico”, di Shokoofeh Azar, è un romanzo iraniano che è stato pubblicato solo perché l’autrice è una rifugiata politica in Australia, in Iran non sarebbe mai stato possibile esercitare un diritto tale; la libertà di espressione è costituzionalmente garantita e spesso è soggetta a un abuso, ma dimentichiamo spesso di trovarci nella parte fortunata del mondo. Anche la morte, le esecuzioni diventano qualcosa di surreale, ai limiti della magia, come la trasformazione in sirena della sorella della protagonista, ma restano sempre esecuzioni fatte alla luce del giorno, davanti agli occhi della famiglia e di chiunque voglia assistere a una tale barbaria. Mentre la morte sembra che sia qualcosa di magico, l’amore invece è un lusso, così come la libertà di vivere senza il terrore di essere additati come dissidenti.
Vi riporto la trama:

Editore: E/O
Collana: Dal mondo
Anno edizione: 2020
In commercio dal: 26 agosto 2020
Pagine: 256 p., Brossura
Romanzo finalista all’International Booker Prize 2020
L’illuminazione del susino selvatico è un’opera che affonda le sue radici nel rito stesso del racconto, nel bisogno umano del mito, contrapposti, come unica possibilità di salvezza, all’ottusa brutalità di un regime. E attraverso il destino di cinque personaggi indimenticabili, traccia il ritratto di un’epoca e una nazione sradicata con violenza dalla propria storia, scissa tra dolore e memoria, tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Iran 1979. La famiglia di Bahar, un’eccentrica dinastia di mistici, poeti e filosofi, fugge da Teheran allo scoppio della Rivoluzione. Segnata da un terribile lutto – a raccontare la storia è il fantasma di Bahar stessa, arsa viva in un rogo in una sommossa –, si rifugia tra i boschi del Mazandaran, lontano da uomini e strade. Lo sperduto villaggio di Razan, immacolato e selvaggio, li accoglie all’ombra delle sue foreste millenarie, popolate da spettri e prodigi, vecchie leggende, le rovine di un antico tempio zoroastriano. Nel giro di un decennio, però, i tentacoli della nuova Repubblica Islamica giungono fino a loro, portando morte e distruzione, guerra e fanatismo, e spezzando per sempre l’equilibrio tra il mondo dei vivi e gli esseri della foresta. Anche la famiglia di Bahar verrà travolta e divisa, e ciascuno dei suoi componenti dovrà andare incontro da solo al proprio straordinario destino. Con una lingua potente e immaginifica, capace di rievocare la tradizione della narrazione orale persiana, Shokoofeh Azar ci regala un romanzo di feroce bellezza, confermandosi come una delle voci più intense e originali dell’Iran contemporaneo.
In questo momento storico si sta rivivendo in Afghanistan il peggiore degli incubi, e nessun romanzo può far comprendere quale sia la disperazione e la voglia di fuga dalla realtà come questo romanzo. Le famiglie che restano sono quelle che devono fare i conti con le privazioni, i divieti e la paura di un regime che fa della sudditanza il suo mantra.
Così come nel messaggio intrinseco della morte, chi va via lascia dolore a chi resta, ed è la stessa cosa in queste nazioni colpite dalla prepotenza e dalla crudeltà, davanti a una comunità internazionale che interviene solo quando ha sete di vendetta nazionalista. I salviniani direbbero di aiutarli a casa loro, e io invece li invito uno ad uno a vivere lì, dove è tutto vietato: la musica, il divertimento, la possibilità di realizzare un sogno. Togliere tutto questo dà in cambio un futuro di morte non sempre in senso fisico, togliere un sogno è togliere la vita.
Manu